Articles

Stecchini

Un sabato sera di quasi due anni fa, mentre guardavo un film, ha cominciato a darmi fastidio un dente. Fastidio che nel giro di poche ore diventava un dolore ingravescente. Pur con la difficoltà di condurre un esame obiettivo a tarda notte e davanti allo specchio del bagno, l’assenza di segni a carico dell’elemento coinvolto e le caratteristiche della sintomatologia mi facevano decidere per una terapia antibiotica a dosaggio pieno con la mia penicillina preferita. L’approccio empirico aveva successo.

Non altrettanto il tentativo di comprendere la natura del problema, che segni clinici e radiografici non hanno permesso di chiarire neanche quando il disturbo si è ripresentato qualche mese dopo, con modalità e rimedio sostanzialmente identici. Da allora il dente incriminato non mi ha più dato fastidio e nonostante i miei sforzi e il confronto con diversi colleghi, la diagnosi è rimasta, a essere generosi, indefinita e il trattamento elettivo mai attuato.

Eppure noi odontoiatri abbiamo a che fare sostanzialmente con due sole malattie e le loro complicanze: carie e parodontite cronica. Purtroppo, però, strumenti e tecniche diagnostiche a nostra disposizione hanno ampi spazi di miglioramento, per usare un eufemismo. Se ci pensate, per la malattia parodontale ci basiamo su misurazioni fatte inserendo uno stecchino metallico a strisce millimetrate dentro uno spazio anatomico mal definito, irregolare e spesso ostruito, mentre la diagnosi di carie si basa su uno stecchino simile ma un po’ più appuntito, associato al famoso occhio clinico.

Senza dimenticare la possibilità di eseguire radiografie ottenute con un tubo radiogeno orientato a mano. Strumenti che la letteratura ci dice essere estremamente dipendenti dall’operatore e quanto meno approssimativi nei risultati. Ve lo immaginate un ematologo che fondi le sue diagnosi su un emocromo in cui il numero di globuli bianchi ha un margine d’errore del 25%?

Se poi consideriamo la nostra sostanziale incapacità nel differenziare le lesioni attive dai loro esiti o nello stabilire quali lesioni siano da trattare e quali sarebbe meglio non toccare, il quadro che ne risulta è piuttosto sconfortante. Soprattutto per i nostri pazienti.

Buona lettura.

Prof. Giovanni Lodi, Direttore Scientifico Dental Cadmos

doi: https://doi.org/10.19256/d.cadmos.06.2017.01


Table of Contents: Vol. 85 – Issue 06 – Giugno 2017

Indexed on: SCOPUS | WEB OF SCIENCE | EMBASE | GOOGLE SCHOLAR | CROSSREF

Impact factor 2022: 0,2